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La banalità del male: la Shoah e l’incapacità di pensare
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Sul piano morale e filosofico, l’orrore della Shoah è stato ampiamente argomentato da Hannah Arendt (1906-1975), storica e filosofa della politica, ebrea tedesca naturalizzata statunitense, che nel 1961 seguì dall’inizio alla fine il processo Eichmann, famigerato criminale nazista, tenutosi a Gerusalemme, come inviata del settimanale New Yorker.
Il gerarca del Reich fu catturato dai servizi segreti israeliani in Argentina nel 1960: giudicato da un tribunale israeliano, tenne a precisare che in fondo lui si era occupato “soltanto dei trasporti”. Fu giustiziato per impiccagione il 31 maggio del 1962, mentre il resoconto e le riflessioni dell’autrice vennero pubblicate integralmente nel 1963 ne “La banalità del male (Eichmann a Gerusalemme)”.
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Otto Adolf Eichmann era stato responsabile della sezione degli affari concernenti gli ebrei dell’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA), svolgendo una funzione essenziale del regime nazista su scala europea: l’organizzazione delle deportazioni di ebrei, omosessuali, disabili, prigionieri politici e testimoni di Geova verso i campi di concentramento e sterminio.
La prima impressione della Arendt alla vista di Eichmann è inquietante: un individuo pressoché normale, né mostruoso né demoniaco, la cui mediocrità e superficialità la lasciarono sgomenta nel pensare al male da lui commesso.
In lui, la donna non riconobbe stupidità, bensì qualcosa di enormemente più negativo: l’incapacità di pensare.


Eichmann aveva sempre agito entro gli stretti limiti stabiliti dalla legge e dagli ordini, con una cieca obbedienza condivisa da un’intera classe dirigente, composta di uomini “normali” responsabili di crimini spaventosi. Da questa assunzione di base, la Arendt elaborò la tesi della “banalità del male”: tale senso di adempienza e normalità fa sì che alcuni atteggiamenti solitamente ripudiati dalla società, tra cui l’agenda della Germania nazista, possano essere messi in atto dal cittadino comune, che obbedisce incondizionatamente alle regole senza riflettere sul loro contenuto.


L’aspetto più agghiacciante di tale irriflessività è il fatto che crimini efferati possano essere commessi in circostanze tali da renderli quasi impercettibili: il Novecento ha dimostrato al mondo come convenzioni etiche e morali che si credevano radicate possano essere stravolte in pochi anni dai regimi totalitari, con una minima resistenza da parte della popolazione. I pochi oppositori non furono “supereroi”, personaggi straordinari, bensì gente comune che domandò a sé stessa sino a che punto sarebbe stata disposta ad andare contro la propria coscienza per conformarsi alle regole: è proprio dal dialogo con il proprio io interiore che scaturisce il pensiero, come sosteneva lo stesso Socrate.


La facoltà di pensare deriva dallo spirito critico, cioè dalla capacità, dei singoli e della collettività, di valutare la realtà in maniera problematica, riflessiva, indipendentemente dal modello etico-culturale che ci circonda, al fine di esprimere un giudizio. Il libero pensiero consente di visualizzare il mondo come una tela bianca, priva di preconcetti, sulla quale l’opera esistenziale di ognuno di noi prende vita autonomamente nella sua unicità. Il libero pensiero è la forma più nobile e profonda di contrasto all’indifferenza, complice silenziosa di qualsiasi ingiustizia, per citare le parole della senatrice Liliana Segre. Il libero pensiero è l’antidoto, la prevenzione del male, non a caso il primo ostacolo rimosso dai regimi dittatoriali. E dobbiamo difenderlo a tutti i costi.